Vi proponiamo il testo della meditazione offertaci da don Sergio Nicolli in questo mese di marzo. Qui di seguito, cliccando sui collegamenti biblici potete leggere i testi di riferimento. Buona lettura!
Sono due testi che ci aiutano a riconoscere la misura della misericordia di Dio: un amore che non si arrende di fronte ai nostri fallimenti e ai tradimenti. Se possiamo essere contenti della nostra vita di credenti e di consacrati, non è perché siamo bravi ma soltanto perché possiamo presentarci davanti al Signore riconoscendo la nostra povertà e affidandoci a Lui.
Una celebrazione penitenziale serve non solo per confessare davanti a Dio la nostra miseria, ma soprattutto per riconoscere che il suo amore è enorme e per gioire di sentirci accolti da Lui comunque sia la nostra condizione.
Cerchiamo anzitutto di capire il bellissimo testo di Ezechiele che avete scelto per questa celebrazione. Prima di ricavarne delle considerazioni per la nostra vita, dobbiamo in qualche modo entrare nel testo e immedesimarci con la vicenda raccontata dalla Parola. Come abbiamo capito dalla proclamazione del testo, c’è una continua sovrapposizione tra la parabola che racconta di questa donna e la realtà di Dio che si prende cura del suo popolo.
C’è una bambina che viene alla luce, ma la sua nascita è destinata alla morte, non alla vita. È una bastarda, di padre amorreo e di madre ittita; è una bambina ibrida, nata da più razze. Non le venne tagliato il cordone ombelicale e non fu lavata con acqua, non fu purificata. Il giorno della sua nascita è anche il giorno del suo abbandono. È rifiutata dai propri genitori naturali che la espongono in aperta campagna: come un aborto che non interessa più a nessuno. Per questa bambina nascita e morte potrebbero coincidere, perché non è accolta in un grembo con un atto di amore.
Ma il Signore passa da lei, volontariamente: passa e vede. A differenza degli altri, Dio ha compassione, prova un fremito di fronte alla vita che sta morendo e le dice: “Vivi nel tuo sangue”. Dio adotta questa bambina: e questo è come se nascesse di nuovo, perché viene strappata dalla morte. La bimba è chiamata a vivere nel suo sangue: Dio non le toglie la fatica di vivere e di crescere nel sangue, non la lava subito, ma le dà la forza di andare avanti e di crescere. La trovatella ora non è più orfana e può crescere all’ombra di una protezione di amore che per intanto si limita a liberarla dalla morte.
La bambina cresce, diventa ragazza da marito. Il Signore passa di nuovo da lei e s’innamora di lei: ha bisogno di lei perché la ama. E anche lei ora è in grado di amare. Lui stende il lembo del suo mantello su di lei e la rende sua sposa. Il gesto di stendere il mantello è rituale nella celebrazione ebraica del matrimonio.
Dio sposo compie azioni concrete per rendere Israele sua sposa. La lava con acqua, la ripulisce dal suo sangue, la unge con olio per rimarginare ogni ferita. Poi la rende bella, la adorna con vesti e gioielli preziosi e la costituisce regina, le dona il massimo della libertà. Notate una cosa interessante: non è stata la bellezza di questa donna a provocare l’innamoramento dello sposo, ma è l’amore dello sposo che l’ha resa bella e libera: la bellezza non è stata la causa dell’amore dello sposo, ma è il frutto dell’amore dello sposo.
Con il versetto 15 però la scena cambia radicalmente (nel testo sono omessi i versetti dal 16 al 59). La donna, di cui lo Sposo si è innamorato, non è capace di conservare la dignità che lo Sposo le ha conferito: “Tu però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita, concedendo i tuoi favori a ogni passante”… Il testo ti Ezechiele descrive poi a lungo (vv. 16-59) tutte le nefandezze che questa donna ha compiuto tradendo l’amore del suo sposo; in trasparenza, attraverso il racconto, il testo racconta tutti i tradimenti che il popolo di Israele ha perpetrato nei confronti del Signore che l’aveva scelto come sua sposa.
A questo punto ci si aspetterebbe la punizione e la cacciata della sposa, ma il Signore non si dimentica dell’alleanza che ha concluso con lei: “Io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna. Allora ricorderai la tua condotta e ne sarai confusa… Io stabilirò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore” (vv. 60-62). Per fare in modo che la sposa provi la nostalgia dell’amore dello Sposo, Dio la consegna alla sua sorte e la lascia soffrire nella lontananza dello Sposo: come il figlio prodigo della parabola che, per decidere di tornare dal padre ha bisogno di passare attraverso l’umiliazione più cocente: il lavoro tra i porci per guadagnarsi un po’ di cibo. Così, nel racconto di Ezechiele, agisce Dio (v. 39): “Ti abbandonerò nelle loro mani (i popoli ai quali Israele si è prostituito) e distruggeranno i tuoi giacigli, demoliranno le tue alture. Ti spoglieranno delle tue vesti e ti toglieranno i tuoi splendidi ornamenti: ti lasceranno scoperta e nuda”.
Quando Dio riaccoglie la sposa (Israele) per ricoprirla di nuovo del suo amore, non ci troviamo di fronte solo a una sposa cambiata, ma è cambiato anche il volto dello Sposo. Neppure Dio è quello dell’inizio. Piuttosto che la vendetta, Dio decide di dare a Israele una nuova occasione di amore, perché comprenda la bellezza dell’alleanza e si converta. Il perdono diventa la modalità di una proposta divina per una nuova alleanza, per un abito nuovo.
Il volto nuovo di Dio che riaccoglie la sposa è il Cristo crocifisso: guardando a Lui, noi possiamo solo intuire la misura dell’amore che Dio ha per noi. È significativo che nella benedizione degli sposi nel giorno del loro matrimonio si ricordi esplicitamente questo: “Nella croce, Gesù si è abbassato fin nell’estrema povertà dell’umana condizione, e tu, o Padre, hai rivelato un amore sconosciuto ai nostri occhi, un amore disposto a donarsi senza chiedere nulla in cambio”.
A questo punto, alla luce della Parola nella quale Dio ci rivela la misura del suo amore, possiamo prepararci al momento dell’abbraccio di Dio nel sacramento della riconciliazione… io preferisco chiamarlo piuttosto “sacramento del perdono”. Oppure, se vogliamo continuare a chiamarlo “sacramento della riconciliazione”, non pensiamo tanto al nostro riconciliarci con Dio ma al dono di Dio che ci riapre gli occhi per dirci che lui non è mai stato in discordia o lontano da noi, nemmeno quando sentivamo bruciare il peso della nostra inadeguatezza… Nella seconda ai Corinti Paolo infatti esorta: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20).
Certamente la scelta radicale di appartenere a Dio, come è la vostra di monache e la mia di prete, è una scelta che domanda un cammino di “perfezione” come ci chiedono i consigli evangelici. Stiamo attenti però a non confondere la perfezione con il perfezionismo. Il perfezionismo è voler raggiungere a tutti i costi un obiettivo di santità come risultato del nostro sforzo di rinuncia al male e di scelta del bene; quando ci sembra di aver fatto qualche passo in questo sforzo, a volte ci capita di ripiombare nella delusione di noi stessi… come quando sollevi un peso per appenderlo più in alto possibile e poi improvvisamente ti sfugge di mano… e il tonfo è ancora più grande quanto più in alto ti sembra di averlo sollevato.
La “perfezione” a cui dobbiamo tendere è un dono di Dio, è il risultato di un lavoro che lo Spirito Santo compie in noi gratuitamente se noi ci affidiamo totalmente a Lui pur nella consapevolezza della nostra fragilità e della nostra povertà. “Perfezione” non è riuscire ad amare Dio mettendoci tutta la nostra buona volontà: è piuttosto lasciarsi amare da Dio con la gratitudine di chi riconosce passo dopo passo l’amore non meritato di un Dio che non si allontana più da noi perché ha stretto con noi un patto di alleanza irrevocabile.
Dobbiamo pensare così il nostro cammino spirituale, quello che facciamo sulla strada della vita, a volte cosparsa di prove, di debolezze, di cadute. È un cammino che facciamo non da soli, in balia degli eventi; è un cammino nel quale il Signore ci tiene per mano, come dice il Salmo 36 (vv. 23-24): “Il Signore fa sicuri i passi dell’uomo e segue con amore il suo cammino; se cade, non rimane a terra, perché il Signore lo tiene per mano”.
Quanto male ha fatto nel passato una spiritualità che ci ha abituati a pensare che Dio ci vuole bene solo quando e se siamo bravi! “Se sei buono, Gesù ti vuol bene” dicevano una volta le mamme cristiane ai loro bambini… O ci hanno fatto pensare che quando noi pecchiamo Dio si allontana da noi. Don Lorenzo Zani, a cui ho chiesto aiuto per commentare in modo corretto il testo di Ezechiele, mi ha passato un bellissimo testo di un teologo, José Tolentino Mendonça” (in un libro intitolato “Padre Nostro che sei in terra. Per credenti e non credenti” – Quiqajon, Magnano 2013): “È spiritualmente disastrosa l’idea che si è diffusa nella visione corrente dell’esistenza cristiana, secondo la quale quando pecchiamo Dio si allontana da noi. Come se succedesse una specie di eclissi di Dio. Non può essere! Al contrario: è necessario affermare che quando pecchiamo Dio ci getta le braccia al collo. Dio non ci lascia, Dio aumenta il suo amore per noi… ci supplica di aprire gli occhi, di ritornare in noi stessi”.
Certo, dobbiamo riconoscere il nostro peccato, non possiamo presentarci al Signore con la disinvoltura del fariseo che, “stando in piedi” davanti a Dio, fa il bilancio della propria vita di religioso praticante, non fa alcun riferimento alla misericordia di Dio ma glorifica se stesso vantando davanti a Dio i propri meriti: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”…
Facciamo pure il nostro personale esame di coscienza; senza la preoccupazione di fare un elenco preciso delle nostre debolezze, preoccupiamoci piuttosto di guardare complessivamente alla nostra situazione umana e spirituale; mettiamo pure davanti al Signore le situazioni che ci hanno umiliato e che ci hanno costretto, come il pubblicano, a dire “o Dio, abbi pietà di me che sono un peccatore”. Il pubblicano è consapevole dei suoi peccati, non cerca scuse, non si misura con gli altri; non è contento di se stesso ed è consapevole che forse non riuscirà a cambiare del tutto la sua vita, forse riuscirà a fare qualche piccolo passo… ma si fida di Dio, si abbandona al suo amore.
Il pubblicano si riconosce peccatore, sa che facilmente ripeterà gli stessi peccati e questo è per lui un motivo di sofferenza e a volte di scoraggiamento, ma si presenta al Signore con umiltà e con fiducia. E Gesù, concludendo la parabola, dice: “questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”. Ecco dove sta la radice del perdono di Dio quando celebriamo il Sacramento: non tanto nell’intensità del nostro dispiacere quando guardiamo in faccia la nostra povertà, ma nella sincerità della fiducia serena che ci consente di abbandonarci alla misericordia e all’amore di Dio.
Anzi, semmai sarà proprio la gioia di sentirci di nuovo amati da Dio nonostante la nostra povertà che ci potrà dare la forza di migliorare qualche cosa di noi stessi per rispondere al suo amore. Non tanto lo sforzo, pure sincero, di fare dei propositi di cambiamento, ma piuttosto lo stupore di scoprirci ancora una volta amati da colui che ci abbraccia nel sacramento del perdono.
Allora l’esperienza dei miei limiti, accostata all’esperienza dell’abbraccio di Dio, fa crescere in me la fede nella bontà di Dio e il bisogno di ringraziare continuamente, di fare della preghiera soprattutto un canto di gratitudine a Dio che guarda con tenerezza alla mia povertà e mi incoraggia ad andare avanti. Per quanto possa sembrare paradossale, l’esperienza del male che c’è in me, portata con fiducia tra le mani di Dio, mi fa scoprire ancora di più la gioia di essere perdonato. Il perdono è un iper-dono, un dono grandissimo, il più grande dei doni che Dio ci fa e che anche tra noi possiamo scambiarci per costruire una vera vita fraterna.
Potremmo dire che se non ci fosse stato il peccato, non avremmo conosciuto il Dio di Gesù Cristo, che ci ha rivelato la misericordia del Padre. È questa la convinzione che la Chiesa esprime quando nella veglia pasquale, nel cuore del Preconio che annuncia la risurrezione, canta: “felix culpa! – felice colpa che ci ha meritato un così grande Redentore!”. Il peccato può essere così il luogo della rivelazione dell’amore di Dio che cambia la vita e fa riscoprire la possibilità dell’esperienza dell’amore. La percezione della propria miseria e insieme della misericordia di Dio diventa il luogo più significativo del nostro cambiamento, della nostra conversione e quindi del nostro ricupero di speranza.
Ricordiamoci: la Chiesa non è una comunità di perfetti, ma una comunità di peccatori perdonati.